Cummins gioca a carte scoperte sull’idrogeno
Il futuro low carbon si avvicina. E i principali player globali non possono farsi trovare impreparati. Cummins, anche attraverso alcune importanti acquisizioni, sta muovendo le sue pedine sull’idrogeno, punta di diamante di una strategia multi-tecnologica. Vi raccontiamo cosa è emerso nel corso dell’Hydrogen Day, una giornata che il gigante made in USA ha dedicato proprio […]
Il futuro low carbon si avvicina. E i principali player globali non possono farsi trovare impreparati. Cummins, anche attraverso alcune importanti acquisizioni, sta muovendo le sue pedine sull’idrogeno, punta di diamante di una strategia multi-tecnologica. Vi raccontiamo cosa è emerso nel corso dell’Hydrogen Day, una giornata che il gigante made in USA ha dedicato proprio alla comunicazione dei piani di medio-lungo termine nell’ottica della decarbonizzazione. Qui vi proponiamo un estratto del lungo articolo che potete leggere a pagina 26 di DIESEL gennaio/febbraio.
Cummins all’Hydrogen Day: perché l’idrogeno?
«Cummins vuole essere protagonista in un futuro low-carbon proprio come lo è oggi nella tecnologia diesel», ha detto il Ceo Tom Linebarger: una dichiarazione d’intenti in piena regola, che ben spiega perché già da qualche anno, e in coerenza con il piano Planet 2050 pubblicato nel 2019, Cummins sta potenziando la sua struttura interna e procedendo lungo un preciso percorso di acquisizioni. Hydrogenics e NPROXX sono entrate a far parte della galassia portandosi dietro strutture e competenze, rispettivamente, nella produzione di elettrolizzatori e sistemi di storage.
Partiamo dalla domanda delle domande. Perché l’idrogeno? E qui vale la pena riportare un ragionamento fatto durante l’Hydrogen Day. Per limitare il surriscaldamento globale occorre ridurre le emissioni di gas serra del 45 percento entro il 2030. Guardando un po’ oltre, già quasi 70 nazioni hanno dichiarato di voler essere carbon neutral entro il 2050.
Parliamo di idrogeno green
Tutto molto bello. Ma, ne sono convinti in Cummins, è arrivato il momento di chiedersi, in concreto, come possono essere raggiunti tali obiettivi. «In questo scenario – ha aggiunto Linebarger – l’idrogeno è destinato ad avere un ruolo di primissimo piano per diverse ragioni: è l’elemento che si trova con più abbondanza sulla terra; abilita l’utilizzo estensivo di energia rinnovabile; può essere utilizzato e prodotto senza emissioni dirette di gas serra». In quest’ultimo caso si parla, è ovvio, del cosiddetto idrogeno verde, quello generato tramite il processo di elettrolisi a partire da fonti rinnovabili, utilizzando quindi acqua, vento e sole. Il problema, non di poco conto, è che oggi soltanto l’1 percento dell’idrogeno generato è ‘green’: la quasi totalità dell’idrogeno attualmente in circolazione è estratto da metano o altri idrocarburi tramite steam reforming (idrogeno grigio). «Ci aspettiamo che l’idrogeno verde possa sostituire quello grigio», ha sintetizzato il Ceo di Cummins.
Se l’idrogeno conviene
Per far sì che l’auspicio possa effettivamente realizzarsi, però, devono incastrarsi una serie di tessere non banali. Lo sviluppo tecnologico è la conditio sine qua non perché ciò avvenga, mentre l’obiettivo di fondo è rendere l’idrogeno verde economicamente competitivo rispetto ad altre tecnologie oggi largamente diffuse. «Il costo di produzione dell’idrogeno, quindi senza considerare quello di distribuzione, varia oggi tra i 3,1 e i 5,6 dollari per chilogrammo – ha spiegato Thad Ewald, Vice President, Corporate Strategy – mentre quello del diesel, con un prezzo al barile intorno ai 50 dollari, non supera gli 1,35 dollari. Inoltre, l’assenza di infrastrutture moltiplica i costi di distribuzione dell’idrogeno, creando un gap notevolissimo con il gasolio, per esempio».
La strada per la decarbonizzazione, insomma, passa da qui e si snoda attraverso tre driver imprescindibili: abbassare i costi dell’energia di partenza, ridurre i costi degli elettrolizzatori oltre a razionalizzare i succitati costi di distribuzione. In sintesi, per quanto riguarda la distribuzione, Ewald ha citato due diversi modelli: uno più distribuito, con la produzione diffusa in molti paesi in siti che utilizzino elettrolizzatori in scala ridotta, e uno più concentrato, basato su siti produttivi perlopiù collocati in aree del mondo ricche di fonti rinnovabili.